Il male oscuro



L’ossessione di Berto provoca sorrisi, distenzione, pura voglia d’un sorpasso leggero, da far senza alcuna paura. Nel momento dei grandi folli ammorbati (si pensi al Gonzalo Pirobutirro di Gadda) che fanno tragedia di spasimi e sbuffi ed invettive furenti Giuseppe Berto decide che la depressione, l’incauta deprezzamento di sé, vale per fare un romanzo vuoto dell’ansia, dei timori, del dramma più evidente. Così "Il male oscuro" assume la forma d’una insania sopita o tenuta sotto controllo: ora la puntura di un’ulcera, ora il fastido d’una crisi nevrotica (passeggera, s’intende), ora un blocco renale, una fitta tra costole, un po’ d’ansia o d’insonnia: nulla di cui tremare, nulla per cui valga già darsi un destino nerissimo. Eppure qualche rapporto s’incrina, la visione delle cose e degli uomini (e delle cose degli uomini) un poco muta, l’ansia ogni tanto si fa sentire presente. Ed allora quest’opera, che pare abbia meno forza d’altri grandiosi romanzi, comincia a funzionare come deve funzionare: per piccoli segni, improvvise apparenze, premonizioni del male. Ne verrà la biografia d’un malato (che se ne rida: rimane un malato) che confessa la subordinazione ferrea al padre, il volontarismo da milite, la laurea in Lettere; la guerra, il lavoro, un matrimonio distratto; la moglie, le figlie, il futuro d’angoscia. Ne verrà un grigiore indistinto (reso per prosa che procede senza sbalzi, senza alcuna forzatura linguistica) che, quando non scade nella commozione più facile, è l’orizzonte che, in effetti, ha innanzi il nevrotico: ovunque, domina il grigiore indistinto. "Dunque romanzo divertente su una vicenda autenticamente drammatica" chioserebbe Pedullà, avendo ragione.


        Dedicata a Raffaella Matti..........